Museo interiore
Avevo letto molto, il sorriso mi aveva
abbandonato
La vita non mi amava affatto
Nell’autunno del 1983, sono diventato finalmente un
misero insegnante di provincia e con questo i sogni dei miei genitori in merito
al destino che avevo da compiere sono finiti. In modo convincente, gli ho
lasciato credere che non è più necessario occuparsi di me e che da ora posso
camminare sulle mie gambe quindi loro che stiano tranquilli, me la cavo da
solo.
Nel villaggio in cui andavo come professore, mi era
stato assegnato un appartamento in uno dei due palazzi piantati accanto al
municipio come animali morenti. Qui ce n’era un’altra decina come me, stranieri
a cui il villaggio non aveva mai guardato in altro modo. Sono diventato
inquilino principale, unico padrone di due stanze che non ho mai popolato con
altro al di fuori dei fogli che ho scritto. È stata la prima e ultima volta in
cui ho avuto casa mia.
Nell’autunno dell’anno successivo, in zona n’é apparso
ancora un altro come me e mi hanno detto: signor Pop, una camera le è
sufficiente, vogliamo darle un subinquilino, il professor Mircea Zubașcu,
insegnerà geografia quest’anno, lei rimane inquilino principale. Essere
inquilino principale era un grande onore, pagavi tu tutte le tasse, risolvevi
tu tutte le grane, però io non sapevo che farmene di tutto quello spazio, due
camere vuote sono due solitudini, così Mircea Zubașcu si è trasferito in una
delle due.
Non ricordo nient’altro che gli inverni trascorsi
insieme, di freddo orribile nell’84 - ’85 e ’85 - ’86 che da ottobre fino a
metà aprile congelava l’intero appartamento comprese le tubature –che per
accendere il fuoco nella stufa per due mesi dovevi comprare la legna col
salario di tre, oppure non sapevamo farlo noi. Dopo le quattro del pomeriggio,
il villaggio sprofondava nelle tenebre, la corrente era staccata quasi dieci
ore al giorno e si dava a stento intorno a mezzanotte, candele non ne trovavi
nemmeno a casa del prete, perciò ce ne andavamo all’osteria, loro avevano luce,
e ci attardavamo lì il più possibile. Quando tornavamo “all’appartamento” si
poteva dormire anche senza fuoco. Certo, all’epoca anche la vodka era più
economica di adesso, potevi riscaldarti sera dopo sera.
Mircea era più indifferente di me a problemi del genere:
prendeva con sé la borsa con i libri e leggeva dappertutto per quanto rumorosi
fossero quelli intorno a lui; in quel periodo, io stesso scrivevo giorno e
notte, potevo stare ore intere curvo sui fogli, dicevo che scrivere può essere
una buona cosa. Però sempre in quel periodo avevo la sensazione che Mircea
avesse letto tutti i libri e di fronte a lui non riuscivo a trattenere il
disagio, se non in poche occasioni. Per questo parlavo raramente dei miei
miseri versi, però lui – ancora più di rado delle sue letture.
Non ho mai creduto che Mircea avesse a che fare con la
scrittura se non dopo molti mesi trascorsi nello stesso appartamento. Era un
uomo riservato sotto molti aspetti e quasi si prendeva gioco della scrittura.
Un giorno però, del tutto casualmente, ho trovato un quaderno grande e
consumato, nascosto tra il letto e la parete. L’ho sfogliato quasi senza alcuna
curiosità. Lo avresti preso per un diario, ma un diario assolutamente alla
rovescia, in cui all’inizio non mi sono saltate agli occhi altro che note di
lettura e frammenti di note quasi senza importanza, qualche proposizione sugli
altri, nulla sul suo conto. E tutte erano perse dentro frasi iniziate a metà o
lasciate aperte o senza senso, sovrapposte le une alle altre, scritte al
contrario dall’ultima pagina, certe assurdità che mi hanno fatto rimettere il
quaderno a posto. Mi ha stupito un po’ solo il fatto che all’interno di
costruzioni così incoerenti, avesse trascritto con mano sicura e attenta: “In
girum imus nocte, ecce, et consumimur igni” (“Andiamo in giro di notte, ed
ecco, siamo consumati dal fuoco”). Ma allora non ho notato alcun nesso tra il
fatto che questa frase si legga nello stesso modo dalla fine all’inizio e
dall’inizio alla fine e quel diario. L’ho dimenticato per molto tempo, fino al
giorno in cui tornando da scuola, ho trovato Mircea ricurvo su di esso con
assoluta attenzione. Quando si è accorto che lo osservo si è alzato di corsa
come stordito, ha chiuso il quaderno, l’ha nascosto dietro la schiena poi,
rendendosi conto che il gesto era ridicolo, mi ha detto che era stato obbligato
dal direttore a preparare i programmi delle lezioni per il giorno successivo,
cosa che gli dava molto fastidio. Ma io sapevo che tra quelle copertine
sporche, spesse e malandate non c’erano solo programmi di lezione. Ho finto di
non notare l’insolito panico che l’aveva preso e sono uscito per dargli il
tempo di infilare il libraccio nel nascondiglio. Solo che la cosa mi ha dato da
pensare e mi sono incuriosito terribilmente. Così, quando si è presentata
l’occasione di rimanere da solo un po’ più di tempo, ho tirato fuori il diario
dal posto che conoscevo e per giorni interi mi sono ingegnato a legare tra loro
le preposizioni disseminate in molte pagine, mescolate con altre loro estranee
e che muovono una verso l’altra da direzioni differenti. Ho avuto la sensazione
di poter decifrare una infinità di cose, ma anche che il diario avesse un
inquietante movimento in sé, come fosse stato vivo: da un giorno all’altro mi
sembrava si facesse più grande e allo stesso tempo, con rinnovata forza, si
deteriorasse, si sfaldasse; non erano solo le pagine a deteriorarsi e a
gonfiarsi, ma anche le lettere, crescendo come le une sopra le altre, perdendo
la precisione dei contorni, formando dopo qualche settimana, lì sulla pagina
dove avevo fatto chiarezza e trovato i significati, una boscaglia spinosa in
cui erano rimaste tutte a intricarsi ancora di più, deformate fino a diventare
irriconoscibili. Nelle settimane successive però qualcosa sono riuscito a
tirargliela fuori. Per esempio, sono riuscito a ricostruire il seguente testo:
“L’emblema del museo è il passato. È la storia come
lettura dei morti. La storia come anche la geografia, dovranno essere abolite;
solo così il museo potrà essere distrutto; poiché l’esploratore d’altri tempi qui
non ha fatto altro che diventare imploratore. Quando mi sono deciso a parlare
del museo, a disposizione avevo ogni tipo di assurdità; ero già pronto. Quando
ho deciso di denunciare il museo come forma di tortura, io sapevo già tutto
della sua costruzione maledetta, seguita dalla fine all’inizio; chi è caduto
sotto il potere dei suoi corridoi scende e scende ancora in questo guscio di
lumaca, inebriato dal desiderio di raggiungere l’inizio. Forse non ne usciremo
mai, qualsiasi direzione prendiamo. Ma è bene che noi invecchiati nella
menzogna rimaniamo in silenzio mentre quelli che verranno, indottrinati da
poco, credano almeno per un po’ di essere nati fuori, liberi, non contagiati
dalla malattia del museo”.
Ogni giorno in cui affondavo nella lettura del cosiddetto
diario di Mircea Zubașcu, ero sempre più incuriosito dai significati che
riuscivo a strappare dalle varie pagine, da strutture sempre più nebulose e
contorte, e ricostruire. Seguivo il filo di un’ossessione che ero sempre più
convinto fosse l’unico motivo per cui questo diario esisteva e l’unico motivo
per cui era stato pensato da Mircea in modo così scellerato. Poiché, nelle note
che sono riuscito a sistemare in un certo ordine e in cui ho trovato una certa
coerenza, torna ancora e ancora l’immagine del museo:
“Una bocca in espansione che si ingrandisce e copre
l’intera faccia, incorporando collo, petto, ventre, tutto. Una bocca fatta per
un certo tipo urlo, che si esercita per un’apertura sempre più grande, che
spera un giorno di essere nella condizione di contenere l’urlo in tutta la sua
infinita vibrazione ed estensione; che si esercita a tempo pieno per quel
secondo di urlo archetipico. Se fossi in condizione di credere, direi che Dio è
l’unica bocca dalla quale può prorompere quell’urlo nella sua totalità; un urlo
così allungato, denso, concentrato in sé che, nel millesimo di secondo della
sua esplosione, annulla anche la bocca da cui è fuoriuscito; per un istante è
lui l’uscita, che in un grumo iperdenso in espansione e differenziazione,
comprende in sé l’intera materia e tutti i significati che allora riempiranno
lo spazio e il tempo; da qualche parte alla fine di questa dilatazione,
un’altra bocca si eserciterà in aperture cosi grandi che un giorno possano
contenere tutto – spazio e tempo –
per poterlo condensare e concentrare ancora in un altro urlo. Allora, per un
istante tutto si fermerà e ci sarà una grande quiete; poi l’urlo si consumerà
ancora una volta, annullando anche la bocca che lo ha gridato. Queste però sono
tutte fantasie nostre, nate dalla speranza che esista un giorno in cui il
passato possa essere completamente abolito. Per non portare ancora avanti
l’illusione e la falsità, io sono già pronto ad immedesimarmi con il museo.
Perché niente può più cominciare. Tutti gli inizi che sembreranno arrivare, con
il loro irreale barlume, si riveleranno vecchie conclusioni. Il passato si
trasforma sempre più nel futuro e lo chiude nel suo tempo stanco; i bastimenti
mandati per mare verso Oriente non torneranno più con spezie e stoffe
asiatiche, ma raggiungeranno la costa infrangendo l’orizzonte e portando nei
loro ventri pile di libri, tonnellate e tonnellate di tomi che ad un certo
punto, nel nostro disperato tentativo di fuga dal passato, abbiamo preso e
seppellito in isole molto lontane; e nel frattempo lì nella terra hanno
fruttificato, gli unici ad essere cresciuti e ad essersi moltiplicati e non ci
entrano più lì sotto; si riversano sulle navi, grandi e asciutte, appesi ai
bordi come piante preistoriche, prosciugando tutto con la loro secchezza. Le
biblioteche tornano punitive, si estendono lungo i nostri margini come spiagge
in continua crescita, si espandono come deserti verso le città e poi sopra di
esse, assorbendo i liquidi dalla vegetazione per trasformarle in sterpi secchi,
in certezze, in leggi, in precetti, in terraferma, fino a quando il mondo
diventi solo un gioco secondo i libri, mentre il Bibliotecario, secco come le
pagine, passa sopra di loro selezionando, chiarificando, sistemando, ordinando,
e dalle isole continuano ad arrivare grandi navi piene di libri. In loro non
cresce nulla di vivo. In loro cresce solo il museo”.
Mircea aveva trovato una soluzione per uscire dal museo?
Certe cose mi hanno convinto a credere che ci fosse arrivato. Perché in molti
punti accenna a un Antilibro. In più, credo di essere riuscito a decifrare in
una certa misura il modo in cui lui vedeva questo Antilibro:
“Lo metterò ovunque si trovino biblioteche; negli
scantinati di ciascun palazzo in cui siano raccolti libri. Per esempio,
immaginati per una prova che posto perfetto è il monastero C, che ora conosco
molto bene. Nei sotterranei ci sono moltissime cantine-celle che non sono state
aperte per decine, forse centinaia d’anni. Nella parte superiore, in una camera
della grandezza di tutte le celle insieme, c’è la biblioteca. Dal momento che i
monaci sono pochi, constatano solo più tardi che nelle loro scansie mancano dei
libri, che ogni giorno scompaiono sempre più tomi. Si sospettano a vicenda;
cominciano a credere che in mezzo ci sia una punizione venuta dall’alto.
La storia può andare avanti ancora per un po’. La realtà
è la stessa. Arriva un giorno in cui alla luce di una fiaccola, qualcuno scende
a cercare le cantine chiuse da decenni. Ha l’impressione che da dietro una
delle porte arrivi l’onda di una respirazione particolare, di un movimento
pesante e continuo. Dà l’allarme ai confratelli: accecati dalla paura, fino
alla fine qualcuno forzerà le serrature arrugginite e la porta cederà. Di
fronte a loro, pronto a espandersi da tutte le parti, a straripare su di loro,
un libro; si, un libro gigantesco che riempie l’intera stanza e pulsa; un libro
vivo, mostruoso, con pagine spesse come pareti, umide, in un continuo cupo
movimento; e queste pagine grandi, con certe bocche da pesci avide, divorano
libri, i libri della biblioteca del piano superiore. Le righe delle loro pagine
si sono gonfiate e mescolate, le parole dei libri divorati si affollano lì alla
rinfusa, contorcendosi come vermi, cadendo da una riga all’altra, smarrendo i
significati, il ricordo dei libri in cui sono state scritte, l’identità, il
senso. E questo libro dei libri vive come un ventre, respirando e ruminando
senza sosta, libro-beffa, Antilibro, quello in cui il tutto diventa niente,
forse è questa la salvezza dal museo”.
Queste sono state le ultime righe che ho avuto la
possibilità e il coraggio di copiare dal diario di Mircea. Perché mi sono
accorto subito che questo diario sbrindellato, umido, nascosto nell’oscurità
tra il letto e la parete, ingrandendosi a dismisura con le frasi sempre più
contorte, fatte a pezzi, mescolate le une alle altre, è la copia del libro
mostruoso che sognava. L’ho lasciato sul tavolo, a vista. Il giorno dopo il
diario non c’era più.