sabato 2 marzo 2013

 4. (arco di trionfo)
questo faccio adesso: torno a oltețului 15.
è venerdì ed è sera.
da venerdì fino a lunedì non abbiamo più di che vivere.
allora hans si infuria e compra alcool sanitario

e zoli si infuria e compra alcool sanitario
ed io mi infurio e dico anch’io perché
e loro dicono perché e dopo mescoliamo
tutto con acqua e cominciamo ad essere felici.

non dicono più perché, io non lo dico più.
da venerdì fino a lunedì non ci sentiamo più.
ne prendiamo una razione ciascuno e cominciamo ad essere
un po’ meno infelici, un po’ meno vivi.

e fino a domenica notte tutto è OK
e non conta se o se no.
si affaccia hans alla finestra e zoli alla finestra ma
non c’è nave che appaia da corinto.
e dicono che non è ancora lunedì e io dico ancora no.

e ad oltețului c’è di nuovo grande allegria.
viene il venerdì e da venerdì fino a lunedì
è il nostro giorno notte giorno libero
e cantiamo da far tremare le stanze –
marinai navigati che sperano una domenica di veder arrivare
all’orizzonte, tra i bloc di colentina,
la nave da corinto.

e il lunedì, quando siamo tutti via, alla fine arriva
anche qui il Figlio a redimere;
con la camicia sporca, gli occhi gonfi d’insonnia,
con la bottiglia vuota in una mano, barcollando e borbottando.
si arrampica per le scale fino alla trecentocinque, allunga la mano e dice:
legami al suo legno, per dormire un po’anch’io, amico.

 Museo interiore

Avevo letto molto, il sorriso mi aveva abbandonato
La vita non mi amava affatto


Nell’autunno del 1983, sono diventato finalmente un misero insegnante di provincia e con questo i sogni dei miei genitori in merito al destino che avevo da compiere sono finiti. In modo convincente, gli ho lasciato credere che non è più necessario occuparsi di me e che da ora posso camminare sulle mie gambe quindi loro che stiano tranquilli, me la cavo da solo.
Nel villaggio in cui andavo come professore, mi era stato assegnato un appartamento in uno dei due palazzi piantati accanto al municipio come animali morenti. Qui ce n’era un’altra decina come me, stranieri a cui il villaggio non aveva mai guardato in altro modo. Sono diventato inquilino principale, unico padrone di due stanze che non ho mai popolato con altro al di fuori dei fogli che ho scritto. È stata la prima e ultima volta in cui ho avuto casa mia.
Nell’autunno dell’anno successivo, in zona n’é apparso ancora un altro come me e mi hanno detto: signor Pop, una camera le è sufficiente, vogliamo darle un subinquilino, il professor Mircea Zubașcu, insegnerà geografia quest’anno, lei rimane inquilino principale. Essere inquilino principale era un grande onore, pagavi tu tutte le tasse, risolvevi tu tutte le grane, però io non sapevo che farmene di tutto quello spazio, due camere vuote sono due solitudini, così Mircea Zubașcu si è trasferito in una delle due.
Non ricordo nient’altro che gli inverni trascorsi insieme, di freddo orribile nell’84 - ’85 e ’85 - ’86 che da ottobre fino a metà aprile congelava l’intero appartamento comprese le tubature –che per accendere il fuoco nella stufa per due mesi dovevi comprare la legna col salario di tre, oppure non sapevamo farlo noi. Dopo le quattro del pomeriggio, il villaggio sprofondava nelle tenebre, la corrente era staccata quasi dieci ore al giorno e si dava a stento intorno a mezzanotte, candele non ne trovavi nemmeno a casa del prete, perciò ce ne andavamo all’osteria, loro avevano luce, e ci attardavamo lì il più possibile. Quando tornavamo “all’appartamento” si poteva dormire anche senza fuoco. Certo, all’epoca anche la vodka era più economica di adesso, potevi riscaldarti sera dopo sera.
Mircea era più indifferente di me a problemi del genere: prendeva con sé la borsa con i libri e leggeva dappertutto per quanto rumorosi fossero quelli intorno a lui; in quel periodo, io stesso scrivevo giorno e notte, potevo stare ore intere curvo sui fogli, dicevo che scrivere può essere una buona cosa. Però sempre in quel periodo avevo la sensazione che Mircea avesse letto tutti i libri e di fronte a lui non riuscivo a trattenere il disagio, se non in poche occasioni. Per questo parlavo raramente dei miei miseri versi, però lui – ancora più di rado delle sue letture.
Non ho mai creduto che Mircea avesse a che fare con la scrittura se non dopo molti mesi trascorsi nello stesso appartamento. Era un uomo riservato sotto molti aspetti e quasi si prendeva gioco della scrittura. Un giorno però, del tutto casualmente, ho trovato un quaderno grande e consumato, nascosto tra il letto e la parete. L’ho sfogliato quasi senza alcuna curiosità. Lo avresti preso per un diario, ma un diario assolutamente alla rovescia, in cui all’inizio non mi sono saltate agli occhi altro che note di lettura e frammenti di note quasi senza importanza, qualche proposizione sugli altri, nulla sul suo conto. E tutte erano perse dentro frasi iniziate a metà o lasciate aperte o senza senso, sovrapposte le une alle altre, scritte al contrario dall’ultima pagina, certe assurdità che mi hanno fatto rimettere il quaderno a posto. Mi ha stupito un po’ solo il fatto che all’interno di costruzioni così incoerenti, avesse trascritto con mano sicura e attenta: “In girum imus nocte, ecce, et consumimur igni” (“Andiamo in giro di notte, ed ecco, siamo consumati dal fuoco”). Ma allora non ho notato alcun nesso tra il fatto che questa frase si legga nello stesso modo dalla fine all’inizio e dall’inizio alla fine e quel diario. L’ho dimenticato per molto tempo, fino al giorno in cui tornando da scuola, ho trovato Mircea ricurvo su di esso con assoluta attenzione. Quando si è accorto che lo osservo si è alzato di corsa come stordito, ha chiuso il quaderno, l’ha nascosto dietro la schiena poi, rendendosi conto che il gesto era ridicolo, mi ha detto che era stato obbligato dal direttore a preparare i programmi delle lezioni per il giorno successivo, cosa che gli dava molto fastidio. Ma io sapevo che tra quelle copertine sporche, spesse e malandate non c’erano solo programmi di lezione. Ho finto di non notare l’insolito panico che l’aveva preso e sono uscito per dargli il tempo di infilare il libraccio nel nascondiglio. Solo che la cosa mi ha dato da pensare e mi sono incuriosito terribilmente. Così, quando si è presentata l’occasione di rimanere da solo un po’ più di tempo, ho tirato fuori il diario dal posto che conoscevo e per giorni interi mi sono ingegnato a legare tra loro le preposizioni disseminate in molte pagine, mescolate con altre loro estranee e che muovono una verso l’altra da direzioni differenti. Ho avuto la sensazione di poter decifrare una infinità di cose, ma anche che il diario avesse un inquietante movimento in sé, come fosse stato vivo: da un giorno all’altro mi sembrava si facesse più grande e allo stesso tempo, con rinnovata forza, si deteriorasse, si sfaldasse; non erano solo le pagine a deteriorarsi e a gonfiarsi, ma anche le lettere, crescendo come le une sopra le altre, perdendo la precisione dei contorni, formando dopo qualche settimana, lì sulla pagina dove avevo fatto chiarezza e trovato i significati, una boscaglia spinosa in cui erano rimaste tutte a intricarsi ancora di più, deformate fino a diventare irriconoscibili. Nelle settimane successive però qualcosa sono riuscito a tirargliela fuori. Per esempio, sono riuscito a ricostruire il seguente testo:
“L’emblema del museo è il passato. È la storia come lettura dei morti. La storia come anche la geografia, dovranno essere abolite; solo così il museo potrà essere distrutto; poiché l’esploratore d’altri tempi qui non ha fatto altro che diventare imploratore. Quando mi sono deciso a parlare del museo, a disposizione avevo ogni tipo di assurdità; ero già pronto. Quando ho deciso di denunciare il museo come forma di tortura, io sapevo già tutto della sua costruzione maledetta, seguita dalla fine all’inizio; chi è caduto sotto il potere dei suoi corridoi scende e scende ancora in questo guscio di lumaca, inebriato dal desiderio di raggiungere l’inizio. Forse non ne usciremo mai, qualsiasi direzione prendiamo. Ma è bene che noi invecchiati nella menzogna rimaniamo in silenzio mentre quelli che verranno, indottrinati da poco, credano almeno per un po’ di essere nati fuori, liberi, non contagiati dalla malattia del museo”.

Ogni giorno in cui affondavo nella lettura del cosiddetto diario di Mircea Zubașcu, ero sempre più incuriosito dai significati che riuscivo a strappare dalle varie pagine, da strutture sempre più nebulose e contorte, e ricostruire. Seguivo il filo di un’ossessione che ero sempre più convinto fosse l’unico motivo per cui questo diario esisteva e l’unico motivo per cui era stato pensato da Mircea in modo così scellerato. Poiché, nelle note che sono riuscito a sistemare in un certo ordine e in cui ho trovato una certa coerenza, torna ancora e ancora l’immagine del museo:
“Una bocca in espansione che si ingrandisce e copre l’intera faccia, incorporando collo, petto, ventre, tutto. Una bocca fatta per un certo tipo urlo, che si esercita per un’apertura sempre più grande, che spera un giorno di essere nella condizione di contenere l’urlo in tutta la sua infinita vibrazione ed estensione; che si esercita a tempo pieno per quel secondo di urlo archetipico. Se fossi in condizione di credere, direi che Dio è l’unica bocca dalla quale può prorompere quell’urlo nella sua totalità; un urlo così allungato, denso, concentrato in sé che, nel millesimo di secondo della sua esplosione, annulla anche la bocca da cui è fuoriuscito; per un istante è lui l’uscita, che in un grumo iperdenso in espansione e differenziazione, comprende in sé l’intera materia e tutti i significati che allora riempiranno lo spazio e il tempo; da qualche parte alla fine di questa dilatazione, un’altra bocca si eserciterà in aperture cosi grandi che un giorno possano contenere  tutto – spazio e tempo – per poterlo condensare e concentrare ancora in un altro urlo. Allora, per un istante tutto si fermerà e ci sarà una grande quiete; poi l’urlo si consumerà ancora una volta, annullando anche la bocca che lo ha gridato. Queste però sono tutte fantasie nostre, nate dalla speranza che esista un giorno in cui il passato possa essere completamente abolito. Per non portare ancora avanti l’illusione e la falsità, io sono già pronto ad immedesimarmi con il museo. Perché niente può più cominciare. Tutti gli inizi che sembreranno arrivare, con il loro irreale barlume, si riveleranno vecchie conclusioni. Il passato si trasforma sempre più nel futuro e lo chiude nel suo tempo stanco; i bastimenti mandati per mare verso Oriente non torneranno più con spezie e stoffe asiatiche, ma raggiungeranno la costa infrangendo l’orizzonte e portando nei loro ventri pile di libri, tonnellate e tonnellate di tomi che ad un certo punto, nel nostro disperato tentativo di fuga dal passato, abbiamo preso e seppellito in isole molto lontane; e nel frattempo lì nella terra hanno fruttificato, gli unici ad essere cresciuti e ad essersi moltiplicati e non ci entrano più lì sotto; si riversano sulle navi, grandi e asciutte, appesi ai bordi come piante preistoriche, prosciugando tutto con la loro secchezza. Le biblioteche tornano punitive, si estendono lungo i nostri margini come spiagge in continua crescita, si espandono come deserti verso le città e poi sopra di esse, assorbendo i liquidi dalla vegetazione per trasformarle in sterpi secchi, in certezze, in leggi, in precetti, in terraferma, fino a quando il mondo diventi solo un gioco secondo i libri, mentre il Bibliotecario, secco come le pagine, passa sopra di loro selezionando, chiarificando, sistemando, ordinando, e dalle isole continuano ad arrivare grandi navi piene di libri. In loro non cresce nulla di vivo. In loro cresce solo il museo”.

Mircea aveva trovato una soluzione per uscire dal museo? Certe cose mi hanno convinto a credere che ci fosse arrivato. Perché in molti punti accenna a un Antilibro. In più, credo di essere riuscito a decifrare in una certa misura il modo in cui lui vedeva questo Antilibro:
“Lo metterò ovunque si trovino biblioteche; negli scantinati di ciascun palazzo in cui siano raccolti libri. Per esempio, immaginati per una prova che posto perfetto è il monastero C, che ora conosco molto bene. Nei sotterranei ci sono moltissime cantine-celle che non sono state aperte per decine, forse centinaia d’anni. Nella parte superiore, in una camera della grandezza di tutte le celle insieme, c’è la biblioteca. Dal momento che i monaci sono pochi, constatano solo più tardi che nelle loro scansie mancano dei libri, che ogni giorno scompaiono sempre più tomi. Si sospettano a vicenda; cominciano a credere che in mezzo ci sia una punizione venuta dall’alto.
La storia può andare avanti ancora per un po’. La realtà è la stessa. Arriva un giorno in cui alla luce di una fiaccola, qualcuno scende a cercare le cantine chiuse da decenni. Ha l’impressione che da dietro una delle porte arrivi l’onda di una respirazione particolare, di un movimento pesante e continuo. Dà l’allarme ai confratelli: accecati dalla paura, fino alla fine qualcuno forzerà le serrature arrugginite e la porta cederà. Di fronte a loro, pronto a espandersi da tutte le parti, a straripare su di loro, un libro; si, un libro gigantesco che riempie l’intera stanza e pulsa; un libro vivo, mostruoso, con pagine spesse come pareti, umide, in un continuo cupo movimento; e queste pagine grandi, con certe bocche da pesci avide, divorano libri, i libri della biblioteca del piano superiore. Le righe delle loro pagine si sono gonfiate e mescolate, le parole dei libri divorati si affollano lì alla rinfusa, contorcendosi come vermi, cadendo da una riga all’altra, smarrendo i significati, il ricordo dei libri in cui sono state scritte, l’identità, il senso. E questo libro dei libri vive come un ventre, respirando e ruminando senza sosta, libro-beffa, Antilibro, quello in cui il tutto diventa niente, forse è questa la salvezza dal museo”.

Queste sono state le ultime righe che ho avuto la possibilità e il coraggio di copiare dal diario di Mircea. Perché mi sono accorto subito che questo diario sbrindellato, umido, nascosto nell’oscurità tra il letto e la parete, ingrandendosi a dismisura con le frasi sempre più contorte, fatte a pezzi, mescolate le une alle altre, è la copia del libro mostruoso che sognava. L’ho lasciato sul tavolo, a vista. Il giorno dopo il diario non c’era più.